Gli Hadza, o Hadzabe, sono un gruppo etnico indigeno protetto di cacciatori-raccoglitori della Tanzania, in Africa. Ad oggi vivono tra i 1.200 e i 1.500 Hadza nel territorio, ma meno della metà di loro sopravvive ancora basandosi esclusivamente sui mezzi tradizionali di sostentamento.
La loro storia ha radici antichissime, tanto che si pensa che siano i più “antichi” esseri umani ad oggi viventi sulla Terra. La loro lingua, l’Hadzane, è la più antica ad oggi conosciuta ed è una lingua interamente orale e consiste in parole intervallate da degli “schiocchi”. Questi schiocchi sono l’elemento più caratterizzante dell’idioma Hadzane e si pensa che l’utilizzo di questa tecnica si sia evoluto nel tempo insieme alla caccia poiché il suono prodotto da questi schiocchi non impaurisce la fauna del luogo, permettendo agli Hazda di comunicare tra loro senza rischiare di far fuggire le prede. In anni più recenti, molti Hadza hanno imparato lo Swahili, la lingua nazionale della Tanzania, come seconda lingua, in modo da poter comunicare con le tribù adiacenti e i turisti che ogni anno visitano questi luoghi. A partire dal XVIII secolo, gli Hadza sono entrati sempre più in contatto con le popolazioni di agricoltori e pastori che entravano nell’Hadzaland e nelle sue vicinanze le interazioni erano spesso ostili e hanno causato il declino della popolazione alla fine del XIX secolo.
La tipica giornata di Hadza comincia alle prime luci dell’alba. Gli uomini si preparano per la caccia mentre le donne raccoglieranno radici, erbe e frutta da riportare al villaggio. Gli archi e le frecce vengono costruiti ogni giorno utilizzando tutto ciò che li circonda, dal legno degli alberi per le frecce ai tendini degli animali per le corde degli archi, mentre le donne intrecciano radici per creare nuovi recipienti e oggetti “di casa”. Per quanto la caccia degli uomini possa, a volte, non andare a buon fine, le donne tornano sempre al villaggio con qualcosa per sfamare la famiglia. Uno dei piatti più ricorrenti all’interno delle famiglie Hazda è una sorta di poltiglia creata dalla farina di cereali unita a dell’acqua. Gli Hazda non hanno un’alimentazione fissa. Si nutrono praticamente di ogni animale selvaggio, dai leoni alle gazzelle passando persino per i babbuini, ma la vera prelibatezza per gli Hazda è il miele trovato all’interno dei nidi di alcune tra le api più pericolose del mondo.
Per comprendere quanto gli Hazda siano parte integrante dell’ecosistema di questi luoghi basti pensare al fatto che il morso delle api di cui sopra, che ucciderebbe di shock anafilattico la maggior parte di noi, non ha alcun effetto sugli Hazda. Non hanno una lingua scritta, non praticano l’agricoltura né l’allevamento e neppure tengono conto dello scorrere del tempo. Le loro giornate iniziano e finiscono insieme agli altri animali del luogo, in un ciclo costante di natura che si insegue all’infinito. Per quanto possa sembrarci lontano e distante il loro modo di vivere non lo è quanto lo è per loro il nostro. Quando alcuni di loro sono venuti a conoscenza del nostro modo di vivere hanno trovato inconcepibile il fatto che ci sia qualcuno che uccida gli animali, li tagli e li confezioni affinché gli altri possano mangiare dopo averli acquistati. O anche il concetto stesso del suicidio. Per loro è impensabile che qualcuno possa togliersi la vita di sua spontanea volontà.
Tante sono le cose che ci distinguono da questi altri esseri umani eppure, guardando le immagini di questo documentario, non è possibile non provare un senso di appartenenza atavico verso questi luoghi e queste persone che, in qualche modo, posseggono la memoria della storia più antica del mondo.
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