Nel nostro panorama linguistico, esistono espressioni che dipingono immagini talmente vivide e realistiche da riportare alla mente anche un sentore quasi sensoriale. Una di queste è proprio l’espressione “andare in brodo di giuggiole”, una locuzione che indica uno stato di gioia incontenibile, quasi come “uscire di sé dalla contentezza”. Ma come nasce questa espressione così insolita? E perché le giuggiole, frutti poco noti nel linguaggio moderno, sono al centro di questa frase? Facciamo un tuffo nella storia per scoprire l’affascinante trasformazione di questo modo di dire.
L’espressione che oggi conosciamo, e che usiamo per descrivere un’emozione intensa e gioiosa, ha in realtà radici molto più antiche e ci riporta direttamente nella Toscana del XVII secolo. In origine, infatti, non erano le giuggiole le protagoniste del detto, ma le “succiole“: una parola dialettale toscana che indicava le castagne lessate con la buccia, comunemente conosciute anche come “ballotte”.
L’idea di “andare in brodo di succiole” nasceva dalla bontà di questo frutto, un tempo prezioso e amato, che nel periodo autunnale riscaldava le tavole dei toscani e portava una gioia genuina e familiare. Le succiole, semplici e saporite, rappresentavano così una piccola delizia per chi non aveva a disposizione dolci elaborati, diventando così l’essenza della dolcezza in cucina.
Come siamo passati dalle castagne alle giuggiole? Le giuggiole, frutti dell’albero di giuggiolo, venivano impiegate in preparazioni che spaziavano dalla medicina (sotto forma di decotti lenitivi per la tosse) alla cucina (per confetture e sciroppi). Per il loro sapore dolce e particolare, questi frutti iniziarono a sostituire le succiole nell’immaginario popolare, diventando il nuovo simbolo di piacere e gratificazione. Così, “andare in brodo di succiole” si trasformò in “andare in brodo di giuggiole”, un’espressione che mantiene il suo significato di estasi, ma che, con il tempo, ha completamente fatto dimenticare la sua espressione originale.
Non tutti, infatti, erano d’accordo con questo passaggio di testimone. Pietro Fanfani e Costantino Arlia, linguisti dell’Ottocento e autori del “Lessico dell’infima e corrotta italianità” (1881), si scagliarono contro questo cambiamento, ritenendolo improprio. Secondo loro, il corretto modo di dire doveva restare quello originale: “andare in broda di succiole”. Le giuggiole, sostenevano, non venivano cucinate come le castagne; semmai, si usavano per decotti medicinali o per la preparazione di dolci, e non erano per niente “brodose”. Ma, nonostante l’insistenza di Fanfani e Arlia, la lingua ha preso una direzione tutta sua e le giuggiole hanno mantenuto il loro posto nell’immaginario popolare, rendendo l’espressione forse ancora più vivida e caratteristica.
Oggi, “andare in brodo di giuggiole” è una delle espressioni più amate della lingua italiana, evocando un piacere sincero e semplice, un senso di godimento quasi infantile di piccoli momenti di felicità. La giuggiola, un frutto piccolo e dolce, sembra perfetta per rappresentare queste soddisfazioni genuine, anche se non è più così utilizzata come un tempo nel nostro Paese. Ma forse non importa più di tanto, perché l’espressione “brodo di giuggiole” riesce a trasmettere ancora oggi quella felicità genuina che, nell’immaginario collettivo, non ha tempo.
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